INTERVENTI SIGNIFICATIVI
Le parole e i commenti di grandi personalità
Scomparsa nei giorni scorsi una della voci più autentiche, e trascurate, del nostro panorama letterario
di Arrigo Levi dal supplemento del Il Sole 24 Ore di domenica 21 agosto 2005
Nel quadro delle opere letterarie italiane a cavallo fra i due secoli i due libri autobiografici Stanze Vuote e Stanze Vuote, addio di Rina Gatti – scomparsa pochi giorni fa all’età di 82 anni – costituiscono un unicum. Per diverse ragioni.
La prima è che Rina Gatti – la sola scrittrice contadina italiana – non ha scritto una sola riga delle sue straordinarie rievocazioni di un’epoca e di un mondo che oggi ci appaiono così lontani, e che sono pur vicini nel tempo, fino al 18 agosto del 1988; quando, all’età di 65 anni, nella prima giornata d’ozio di tutta la sua vita, in un “gradevole ostello” di Santa Severa per giovani, per famiglie, e per malati non autosufficienti, dove i suoi due figli hanno voluto farle trascorrere la prima vacanza della sua vita, si ritrova, senza aver nulla da fare tutto il giorno, a guardare il mare, quasi smarrita.
E’ sopraffatta da un’onda di memorie, di emozioni , “non più arginate dalla diga del fare quotidiano”; sente che quell’onda sta per sommergerla; d’istinto, entra da un tabaccaio per comprare una penna e un quaderno a righe, e comincia a scrivere, per calmare l’agitazione della mente, “per mettere un po’ d’ordine nella confusione di sensazioni e di ricordi di una vita”, che “non sa come giudicare”. Da quel momento non smette più di scrivere; e con l’aiuto dei figli, che l’affiancano nel mettere un po’ d’ordine in quel fiume di parole che le escono dal cuore, dà vita a un racconto autobiografico, raccolto e diviso in due libri, in cui riporta alla vita tutto un mondo: il mondo contadino dell’Umbria tra le due guerre, quasi arcaico nelle regole di una vita dura di lavoro, ma ricco di valori e di affetti; e poi il mondo difficile del dopoguerra di una famiglia contadina che, lasciato il lavoro dei campi, cerca di sopravvivere in una realtà sconvolta da un “progresso” di cui loro rimangono sempre ai margini.
Rina nasce nel 1923 vicino a Torgiano, in provincia di Perugia, in una numerosa famiglia contadina, in una grande e bella casa colonica, sita al centro di un vasto podere, non lontano dalle rive del Tevere. Studia fino alla quinta elementare, perché la maestra insiste che non si fermi alla terza. Ha, bambina e adolescente, una vita intensa e piena: vita tipica di una famiglia di mezzadri, vita di un lavoro che non conosce momenti di riposo neppure per i ragazzi. Meno che mai per le ragazze, coinvolte, oltre che nell’aiuto ai lavori dei campi, nel far da balia ai fratellini più piccoli (quelli che sopravvivevano ai primi mesi e anni di vita erano in media uno su due, nell’Italia contadina d’allora); nei lavori di casa; nella tessitura, cucitura e ricamo dei capi del corredo indispensabile per trovare un giorno marito.
La sua è una vita condizionata dalle dure e antiche regole del suo mondo e del suo tempo, ma che si svolge al sicuro nella grande casa, nella grande famiglia, ben governata dai vecchi, senza slanci affettivi ma in un’atmosfera di armonia, nel rispetto doveroso del padrone, e del Signore. Di quella vita proverà fin che vive una incurabile nostalgia, che contribuirà a mantenere vivi e nitidi i suoi ricordi. Rievoca ogni momento della giornata normale di lavoro, dall’alba al tramonto, così come ricorda ogni dettaglio dei grandi eventi – la mietitura, la battitura, la visita alla fiera – che scandiscono l’anno contadino; e ricorda ogni momento della storia dei suoi sentimenti, le paure, gli stupori, le gioie che accompagnano ogni passaggio della vita della bambina che si fa adolescente, e poi donna, e poi sposa, purtroppo infelice, infaticabile nella difesa dei figli, sempre nel timor di Dio e nel rispetto del prossimo.
Anche chi non è umbro, ma ha conosciuto in prima persona da bambino, in altre regioni d’Italia, la vita delle campagne negli anni trenta, trova nelle rievocazioni di Rina Gatti straordinarie somiglianze con i propri ricordi: la civiltà contadina, almeno fra Toscana ed Emilia, era una sola, antica e immutabile nel tempo. E invece quella civiltà stava per finire, tutt’a un tratto.
Per Rina, tutto cambia dal momento in cui si sposa. Va a nozze perché sposarsi si deve, con un marito che quasi non conosce – sono i vecchi delle due famiglie che contrattano, come al mercato, le condizioni del matrimonio – un marito che non ama e che non sa amare, rivoluzionario mancato, ribelle ed inquieto, che non riuscirà mai a tenere un posto di lavoro per più di un anno, e che, trascinandola da una residenza provvisoria a un’altra altrettanto miserabile, lascerà soprattutto a lei, alle sue incredibili fatiche di lavoro e alla sua indomabile volontà di sopravvivere, il compito di ”mettere insieme pranzo e cena”, con i lavori più umili e faticosi; e di far crescere, e crescere bene arrivando a farli studiare, due figli, che sono il suo pensiero dominante e la sua forza.
I due libri hanno avuto subito un vasto successo in Umbria. Rina ha scritto anche poesie, ha vinto un concorso letterario con un racconto, ha visto alcuni dei suoi scritti prescelti per un libro (“Life after work”) edito dall’Unione Europea. La sua opera ha raccolto, da chi ne è venuto a conoscenza, giudizi estremamente lusinghieri, non solo per la originalità del racconto, per i suoi ritmi istintivamente sapienti, per la lucida rievocazione di una vita dimenticata; ma per la classica limpidezza della scrittura, nitida nella descrizione della vita quotidiana, come di alcuni rari eventi straordinari che hanno del miracolo, e nella rievocazione di un patrimonio di sentimenti, di dolori, di gioie inaspettate, che l’anziana contadina aveva portato per tutta la vita nascosto dentro di sé.
Ma ovviamente i due libri sono rimasti ai margini delle grandi correnti della vita letteraria italiana, estranei alla giostra dei grandi premi letterari, cui oggi concorrono tanti libri ambiziosi quanto illeggibili; e soltanto poco a poco hanno acquistato una certa risonanza, che sicuramente crescerà nel tempo (purtroppo, dopo la sua morte).
Perché l’originalità di questi scritti non sta soltanto nelle circostanze singolari, che ho ricordato, di come e quando essi sono usciti dalla tenace penna di una contadina di oltre 65 anni, che in tutta la vita aveva scritto soltanto poche lettere per conto di parenti analfabeti. Ma perché almeno altre due caratteristiche li rendono quasi unici.
Il fatto è che Rina Gatti, nel rievocare i dolori, le pene, le faticose e rare ma intense gioie della sua esistenza, ci dipinge anche un quadro di vita italiana visto da una donna, dall’”altra metà dell’universo”. E ancora: Rina racconta il mondo dei sommersi visto dalla parte dei sommersi; che qui non sono oggetti, ma soggetti pensanti e dolorosamente senzienti della loro condizione di sommersi. Per trovare libri simili bisogna ritornare alla letteratura realista di un tempo che fu: con la differenza che la vita dei miserabili veniva descritta, con arte e coscienza, da scrittori di professione, che magari ce ne fossero ancora. In questi libri è stata descritta e rivissuta da uno di loro. Anzi, da una di loro.
Fiera Internazionale del Libro di Torino – Palazzo del Lingotto – Torino 7 maggio 2006
Presentazione di “STANZE VUOTE” di Rina Gatti editore Thyrus – 2006 a cura del Prof. Walter BARBERIS
Io non sono un critico letterario, dunque da questo punto di vista non ho dei commenti particolarmente illuminanti da proporre, io insegno metodologia della ricerca storica e dunque ho un occhio un po’ particolare quando prendo in mano un testo come questo che è sostanzialmente una memoria, una testimonianza, qualcosa che nella mia sensibilità è a cavallo tra un libro di storia, un libro di antropologia e naturalmente tuttavia un libro che ha una sua importante cifra letteraria. Quando noi diciamo storia, antropologia, letteratura, usiamo delle parole un po’ altisonanti che probabilmente non si adattano bene alla figura di Rina Gatti in cui non v’è questo tipo di competenze questo tipo di sensibilità; dunque vorrei proporvi un breve ragionamento sul perché questo libro è un libro piuttosto importante ed è un libro importante esattamente per il motivo per cui voi, probabilmente, come tutti noi me compreso, non sopportate la storia così come i manuali di storia normalmente ve la propongono.
Qui la grande storia occhieggia in due sole grandi occasioni: ci sono dieci righe in cui Rina Gatti racconta di una adunata fascista nel paese più vicino al suo podere dove tutti si radunano e dove lei per la prima volta vede la folla che acclama il Duce del fascismo; l’occasione è la vittoria delle truppe italiane in Etiopia nel 1935-36, allora chiamata Abissinia e gli italiani, diciamo così, rispondono in modo più o meno inconsapevole a questo, diciamo, avvenimento della Grande Storia anche nelle località meno esposte a questa Grande Storia.
L’altra occasione è quella con cui si chiude il libro, quella sorta di cupo stupore, di curiosità piena di preoccupazioni indotta dalla dichiarazione di guerra il 10 giugno del 1940 dove di nuovo lo scampanio che si avverte anche nelle zone più remote della campagna dice che sta succedendo qualcosa di importante; al di là di questo due episodi non c’è mai qualcosa che abbia a che fare con la storia come noi siamo abituati a considerarla e invece questo libro è un libro che con la storia, per vari motivi, ha molto a che vedere perché la storia naturalmente non è quella o soltanto quella dettata dalla scrizione di avvenimenti politicamente importanti ma è storia d persone e qui le persone emergono con una nitidezza direi anche fuori dal comune.
Questo è un libro dove la vita quotidiana è protagonista assoluta; dove qualcosa di più emerge che un semplice racconto magari un po’ sbiadito e calligrafico di una vita contadina. Questo è un libro che fa capire con grande profondità quale sia stata ancora poco tempo fa l’asprezza della lotta dell’uomo contro la natura.
Di un mondo esposto estremamente esposto alla durezza di una vita che dava solo sopravvivenza; nelle parole di Rina Gatti questa preoccupazione per la sopravvivenza è notevole. C’è una lotta continua nei confronti di una natura piuttosto ingrata e una lotta fra uomini nel circuito sociale. Gli uomini che lavorano in questo podere devono rispondere con esattezza, in termini contrattuali, a cui sono bene o male costretti dalla loro dipendenza da un padrone. Dunque ci sono dei rapporti sociali, ci sono nella grana, nella filigrana di questo libro cose che noi intravediamo, che Rina Gatti non tratta mai con linguaggio retoricamente sociologico, per carità, e tuttavia noi qui capiamo molto di come è organizzato anche quel mondo e quell’ambiente.
C’è una lotta che ci dice qualcosa della precarietà della vita, il modo con cui Rina Gatti ci introduce ad una mortalità infantile è qualcosa non solo di suggestivo, ma anche abbastanza inquietante, la quantità di piccoli morti che cospargono questa vita contadina è effettivamente di un mondo che non è solo fisicamente a rischio ma che in qualche misura comporta una profonda modificazione interiore, dice qualcosa di una fatalità incombente che rimane nella coscienza delle persone.
Ma, come è già stato ricordato, questo libro dice moltissimo, moltissimo della condizione della donna, la condizione della donna in un mondo contadino nel quale la donna è letteralmente imprigionata nelle stanze di una casa e , sostanzialmente, nell’aia antistante la stessa casa. E’ una donna che. diciamo così, nasce già in una posizione subordinata, è una donna che nasce “tollerata” fin da piccola come la mano che in futuro aiuterà nei lavori domestici. Ovviamente meno stimata del maschio che sarà fornitore di braccia per i lavori nei campi, è una donna anche meno stimata della mucca che invece rimane un’importante risorsa del patrimonio economico contadino come fornitrice di un bene primario, il latte, ma soprattutto come fattrice di altri animali cioè di altre risorse nell’economia contadina. E’ una donna destinata fin da piccolissima ad accudire altri piccolissimi: fratelli, cuginetti, gli ultimi nati.
E’ una donna che deve ubbidire, è una donna che non ha nessuna libertà, nulla che assomigli alla nostra vita di oggi; è una donna che ha una estremo rispetto subordinato, rispetto all’uomo. E’ una donna che impara prestissimo l’arte e il dovere di essere paziente che deve entrare nella parte di questa sudditanza sociale che le è toccata; gode di un solo privilegio, nel libro Rina Gatti ha alcuni passaggi estremamente suggestivi su una cosa minima: un brodo di pollo. E’ l’unico privilegio che si riconosce ad una figura così soffrente, così marginale, ancorché importante nella dimensione di quel mondo, qual brodo di pollo che viene somministrato non senza qualche gelosia alla giovane o alla donna che abbia appena partorito; per qualche giorno, per qualche settimana, naturalmente per un periodo sufficiente a ristabilirla. Questa quasi impalpabile materialità privilegiata è forse l’unica nota di tenerezza che questo mondo dedica alla donna dove, per il resto, sono donne che imprigionano altre donne; donne che insegnano alle donne più giovani a rimanere nel posto che spetta loro. Donne che quando giungono, come voi, alla prima maturità di donne sono già stanche, sono già esauste, sono già in qualche modo deluse dalla loro condizione di donna; sono già quasi senza speranza.
Rina Gatti queste cose le dice con molta semplicità ma, a mio modo di vedere, con grande efficacia. Rina Gatti riflette su tutto questo a sessant’anni compiuti, dopo aver vissuto sostanzialmente una vita che, dice lei, “non le è appartenuta”, una vita sostanzialmente fatta di lavoro, di sacrifici e di dedizione nei confronti di altre persone.
Rina Gatti ha una cifra letteraria nel momento in cui trova questa sorta di invenzione che è il dialogo con le stanze, ormai vuote, che hanno visto tuttavia protagonista lei e la sua famiglia di una vita, di quella vita contadina di cui rammenta tutta la sua esperienza. E, naturalmente, la cifra letteraria di questa sua, tra virgolette, invenzione sta tutta nel fatto che Rina Gatti, talvolta, chiede alle stanze di essere complici nel ricordare le cose che lei intende proporci.
E’ una sorta di ingenuità mista a talento naturale con cui racconta il suo mondo.
Rina Gatti ha una scrittura che, da questo punto di vista, ha una sua rilevanza perché non è una scrittura nostalgica e tuttavia è una scrittura che non nasconde elementi di nostalgia perché si parla di un ambiente estremamente aspro ma anche di un ambiente dove non mancano affetti e sostanziali momenti di solidarietà di reciprocità, di tenuta. E’ un ambiente affettuoso e tuttavia pieno di pudore, è un ambiente fatto di tantissimo lavoro e di pochissime parole, è un ambiente fatto di silenzi, di sguardi di cose che ciascuno sa fare, sa che deve fare e non ha bisogno di commentare.
La memoria.
Ho detto prima che ovviamente io, per questioni “professionali” mi occupo di rapporto tra memoria e storia; bene, sarebbe banale dire che Rina Gatti ha messo mano alle sua memorie in fondo per consolarsi e consolarci di aver scampato tutto sommato il pericolo di rimanere inghiottita, sommersa in quel mondo contadino da cui, in qualche misura, invece si è emancipata.
Rina Gatti non è rimasta sostanzialmente dentro a quel mondo privo di orizzonti; guardate che qui la fisicità dei luoghi e la metaforicità dei luoghi ha una sua importanza. Un podere da cui non si vede neanche il villaggio è il luogo da cui non si vede la vita, da cui non si vede il futuro, da cui non si vede una prospettiva di speranza; che, se ci fate un momento di riflessione, è esattamente quello che muove ciascuno di noi, voi, che siete giovanissimi nella prospettiva della vostra esistenza. Qualunque sia la vostra speranza, la vostra immaginazione, la vostra fantasia, la vostra utopia è una proiezione verso qualcosa. Quel mondo impedisce qualunque tipo di proiezione, sai già, a 10 anni, qual è l’elemento di prigionia dentro il quale ti manca.
Ora, faceva Leopardi una riflessione. In un suo passo, abbastanza importante, Leopardi diceva “uscir di pena è diletto fra noi”. Cosa voleva dire? Voleva dire che ciascuno di noi vive dei momenti dolorosi, difficili, superati i quali ci si sente più rilassati, più felici, più contenti e comunque si tende a fare cosa? A fare quell’operazione che gli psicologi e gli analisti chiamano “rimozione”, si tende sostanzialmente a dimenticare le cose più brutte e ad andare avanti, a guardare avanti.
Rina Gatti questa operazione non la fa.
La sua è una malinconia che non viene messa a tacere, la sua emancipazione è, ovviamente, una strada che la trova come una “sopravvissuta consapevole” ma non a tal punto da dimenticare quali siano stati gli elementi angosciosi che hanno segnato la sua esperienza. L’angoscia di una vita in cui non ha dominato la speranza, in cui ha dominato piuttosto la paura dell’ignoto. Guardate che c’è una differenza sostanziale tra guardare avanti con la speranza di fare delle cose e guardare avanti con la paura che succedano delle cose.
Rina Gatti ha vissuto in un mondo in cui la fatalità suggeriva la paura, non la speranza.
La sua è una memoria in cui si avverte naturalmente il legame affettuoso, molto affettuoso con un ambiente che è scomparso, travolto dal moderno, come si usa dire, la campagna, la natura che erano durissime ma al tempo stesso gratificanti; fatta di profumi, fatta di colori, fatta di cose con cui si ha una confidenza quotidiana, una amicizia profonda, la natura che non c’è più, che ha lasciato il posto dove c’era il viottolo alla strada asfaltata, la natura che ha lasciato il grande prato al capannone industriale eccetera eccetera. La storia di un’Italia del grano che nel frattempo si è in un qualche modo contaminata ed è morta con tutte le sue contraddizioni.
E’ una memoria, questa di Rina Gatti, mi permetto, ho richiamato il Leopardi richiamo solo un’altra volta un autore importante che è Primo Levi, è una memoria che è rimasta toccata in profondità dalla sofferenza, è una memoria, come dire, che non riesce a liberarsi dalla disillusione.
Primo Levi parla di cose assolutamente tragiche, di cose che hanno segnato la storia del mondo, del Novecento, e tuttavia nei passi in cui dice “chi è stato torturato una volta nella vita, lo rimane sempre”. Questo è vero, ci sono ferite nell’anima profonde che non sono come quelle fisiche, non si rimarginano, si possono in qualche modo coprire, si può mettere qualcosa sopra, ma ci sono dei momenti particolari nella vita in cui queste ferite sembrano riaprirsi, non sono rimarginabili completamente.
Ebbene, nella vita di Rina Gatti questo impasto di sofferenza, di durezza e un velo di nostalgia non riescono a creare le condizioni sufficienti per emanciparsi da una sensazione di inestinguibile sofferenza. Le “stanze vuote” sono lì a dire che una storia è finita; Rina Gatti sa che le sue stanze, quelle stanze, hanno vissuto con lei la sua vita, per questo le interroga, le sollecita, sollecita il loro ricordo, le chiama complici. Come un grande testimone di un’epoca, Rina Gatti non ha nessuna retorica nella sua scrittura, non ha dogmi da proporre, non ha lezioni da impartire, non ha tesi da difendere, si offre con semplicità, si offre con crudezza, si offre con genuinità di sentimenti ai suoi molti interlocutori veri o anche immaginari.
La sua lingua è diretta, la sua lingua è semplice, una lingua tuttavia molto suggestiva, efficace di una forza che, se fossimo dei critici letterari, definiremmo verista, faremmo dei paragoni grandi, magari con Verga e saremmo in qualche misura sulla strada e fuori strada; non vanno messe così le cose.
La prosa “poetica”, se mi permettete questo gioco, di Rina Gatti ha dei lampi di scrittura veramente notevoli, tuttavia vorrei chiudere questa breve conversazione su Rina Gatti richiamandovi ad un aspetto; la scrittura di Rina Gatti non è solo una testimonianza, un documento, è in qualche modo un richiamo alla “moralità dell’esistenza”. Rina Gatti è una figura di profondissima moralità, aderisce a dei valori umani che sono qualche volta dimenticati se non scomparsi. Viene da un mondo sommerso che tuttavia ha qualcosa di umano che anche oggi dovrebbe ancora essere attentamente valutato e difeso.
Trascrizione dell’intervento del Prof. Roberto SEGATORI
Docente di Sociologia presso l’Università degli Studi di Perugia
Alla presentazione del libro “Stanze Vuote, addio”
di Rina Gatti Edizioni THYRUS 2003 / Perugia – Palazzo Cesaroni 27 giugno 2003
Premetto che questa non è una presentazione d’occasione, di cortesia, è una presentazione vera, perché questo, anzi questi sono libri veri.
Sono due lavori che hanno una caratterizzazione così forte dal punto di vista letterario e dal punto di vista della testimonianza che meritano un’attenzione particolare. Questi libri hanno, secondo me, tre valori fondamentali: il primo è un valore letterario, valgono cioè come testi narrativi in sé, sono belli da leggere come una specie di romanzo, anche se noi sappiamo che è in realtà un lungo diario, ma hanno un valore letterario in sé. Hanno poi uno straordinario valore di documentazione sociale e hanno una dimensione psicologica, relazionale, emozionale altrettanto valida. Questi tre valori scopriamo nell’opera, sul valore letterario me la cavo velocemente, non sono un critico letterario ma sono un lettore vorace ed ho apprezzato l’immediatezza, cioè il libro mi prende, dopo poche riche, dopo una pagina e mezza ci sono totalmente dentro a differenza di altri dove l’immediatezza non scatta ed il libro viene abbandonato. Il libro di Rina ha questa straordinaria dote, l’immediatezza, e nei due libri ci sono due immediatezze completamente diverse, quella di Stanze Vuote è il libro dell’infanzia, della serenità, Stanze Vuote,addio è il libro della maturità, dell’età adulta, della sofferenza, della crescita, della presa di coscienza del rapporto di coppia. Il primo libro mi ha preso per quello che mi ha evocato delle nostre splendide vallate umbre e di quella memoria di vita contadina, il secondo fa star male, è il libro della sofferenza ma ti porta dentro. Quindi c’è l’immediatezza ma c’è anche la profondità, l’altro valore letterario; l’immediatezza ti porta dentro, profondità significa che ogni tanto mi dà degli spunti, mi costringe a delle riflessioni che aumentano la mia consapevolezza delle cose, che mi fa andare aldilà di quello che già conoscevo, che mi apre uno squarcio in universi di intuizioni e dico “ perbacco, non ci avevo pensato, guarda che cosa bella e profonda” . E questo è uno stupore costante di straordinarie intuizioni e straordinarie prese di coscienza che Rina ci consegna.
C’è poi il valore sociale: questi due libri vanno considerati come dei monumenti. Nel senso che quando vogliamo ricostruire dei periodi storici, spesso usiamo dei monumenti fisici tramite i quali leggiamo la storia, e noi in questi due libri troviamo condensati 50-60 anni di storia umbra che, senza queste testimonianze, aldilà dei libri di saggistica magari un po’ noiosa, andrebbero perduti.
Gli storici tra 200 anni se vorranno capire come si viveva nella campagna umbra, prenderanno i documenti, prenderanno quei saggi di storia economica, ma se vorranno uno spaccato vero, quotidiano, di come si viveva nella quotidianità delle campagne umbre nella prima metà del novecento prenderanno Stanze Vuote, se poi vorranno vedere come si viveva a ridosso della Seconda Guerra Mondiale prenderanno Stanze Vuote, addio; per questo i due libri sono uno straordinario monumento.
Quindi una storia letteraria bellissima ed un monumento sociologico, ed io mi stupisco del livello di chiarezza di espressione e del livello di riflessività che c’è sopra. C’è una chiara, testimoniale rappresentazione dei modelli che reggevano il mondo, dai rapporti tra proprietari e contadini, ai rapporti interni alla famiglia, con i modelli dominanti, degli uomini sulle donne e degli anziani su tutti. Una chiarezza che Rina non abbandona nemmeno quando parla dei rapporti interni di coppia dopo un matrimonio sfortunato e mille vicissitudini che accadono ai protagonisti, una chiarezza a volte anche cruda con cui descrive il rapporto di coppia, senza ipocrisie, con coraggio e consapevolezza di potercela fare contando sulle proprie forze.
Quindi tutte e tre le letture sono belle, dal punto di vista letterario, da quello storico e sociologico, e da quello psicologico relazionale, io questo libro lo consiglierei a tutti, complimenti Rina.
Intervento del Prof. Mario Tosti
Storico , Docente di Storia Moderna, Presidente dell’Istituto per la Storia dell’Umbria Contemponanea
alla Presentazione del libro “Stanze Vuote, addio” di Rina Gatti
Perugia – Rocca Paolina 15 novembre 2003
Un volume bellissimo che ho letto con molto piacere.
Una lettura avvincente che non ti lascia una pausa perché vuoi sempre andare avanti, capitolo dopo capitolo.
Mi sono chiesto, da Presidente dell’Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea che ha incentrato la sua attività sul rapporto memoria-storia, se questo libro poteva essere utilizzato per fini didattici. Questo perché abbiamo un problema di fondo attualmente: i nostri giovani sono senza memoria, schiacciati sul presente. Una delle cause è che si è interrotto il collegamento familiare tra nonni, genitori e figli. Non c’è più questo tramandare, ma, senza la memoria è difficile condividere i valori comuni è difficile creare diritti di cittadinanza.
Ma se non c’è più questo collegamento generazionale, a chi spetta la responsabilità di costruire una memoria condivisa? Io credo che spetti alla scuola.
Come può la scuola assolvere il compito di trasmettere memoria? E quale deve essere il rapporto tra storia e memoria?
I giovani non hanno più strumenti per costruire memoria, non hanno la percezione della profondità del senso storico.
Quale rilevanza deve avere la memoria nel campo della ricerca storica?
Cioè, come uno storico può utilizzare questi testi di Rina Gatti?
Perché non stiano parlando solo della storia, qui stiamo parlando, attraverso la memoria, della formazione di un senso civile ed etico, quindi di una comunità che si deve riconoscere in qualcosa. La scuola deve avere questo ruolo di corretta educazione alla memoria, si sa che i ragazzi non conoscono la storia, e non solo per colpa loro, ma forse degli adulti che non riescono più a trasmettere memoria.
In epoca recente c’è stato un processo generalizzato di disgregazione della coscienza collettiva e delle appartenenze politiche e sociali mentre venivano immessi nella società visioni e modelli di tipo individualistico ed egoistico che hanno prodotto un distacco tra la singola esistenza e la visione collettiva dell’esistenza. E’ “la solitudine del cittadino globale”.
La scuola ha continuato a non insegnare la storia recente, ci sono perplessità sull’insegnabilità della storia contemporanea e gli stessi insegnanti si sottraggono a questa responsabilità, per motivi personali o spesso per la confusione che in questi anni si è creata tra storia e politica.
La storia viene utilizzata per fini politici, le fonti o i documenti vengono distorti per fini politici e, di fronte a questa situazione, non c’è la serenità, la pacatezza che potrebbe fare della storia un campo privilegiato per la costruzione di identità collettive ed individuali.
Io credo che l’insegnante dovrebbe fare un accurato vaglio delle categorie e delle rilevanze della storia contemporanea, dovrebbe fornire agli studenti gli strumenti metodologici e problematizzare lo studio della storia. In questo modo la storia diventerebbe una disciplina in grado di formare coscienze critiche. Perché questo è l’obiettivo della storia. La storia non è tanto lo studio del passato per capire il presente, anzi, quasi mai la storia è stata maestra di vita anche se questo è il luogo comune più diffuso, in realtà il compito della storia è appunto quello di formare coscienze critiche.
La scuola assolverebbe così alla sua responsabilità costituzionale di formazione etico civile dei giovani, avrebbe così funzione in questo nostro tempo di supplente per la costruzione della memoria collettiva che in nessun altro luogo mi sembra si possa costruire.
Sarebbe un fatto importante visto che i ragazzi in questo momento rivendicano un’autonomia della loro vita dalla storia, non nutrono curiosità per il passato storico nemmeno per quello familiare, e del resto nessuno ormai più trasmette storia o storie tra nonni, genitori e figli. Nasce quindi, in base a queste evidenze, il problema delle fonti; fonti “di memoria” e fonti “per la memoria” dato che l’educazione all’uso delle fonti rimane uno degli assi centrali dell’educazione storica anche perché l’uso distorto delle fonti, specie quelle della memoria, diventa spesso battaglia politica.
Allora l’educazione all’uso delle fonti acquista valore formativo anche sul piano generale dell’educazione del cittadino; si pone quindi il problema di selezionare quali fonti portare a scuola, che tipo di materiale l’insegnante può utilizzare perché per l’età contemporanea tutto può essere fonte. Anzi, muovendosi dall’età antica alla contemporanea abbiamo una proliferazione di fonti, ma mentre per l’età antica bisogna andarsi a cercare le fonti e quelle che si trovano sono magari disomogenee e discontinue, per l’età contemporanea abbiamo il problema opposto, di selezionare le fonti. Per ricostruire e trasmettere la memoria però ci sono delle fonti specifiche, che riguardano in particolare la costruzione della memoria autobiografica, dell’autobiografia personale cioè del passaggio di questa dalla memoria, al ricordo, alla testimonianza. Dicevo appunto di due fonti, fonti “di memoria” e fonti “per la memoria”: fonti”di memoria” sono diari, lettere ecc. mentre fonti “per la memoria” sono invece le sistemazioni successive del racconto autobiografico.
I testi di Rina Gatti secondo me appartengono a questa seconda categoria, sono fonti “per la memoria” perché l’autrice, attraverso questi testi, si riappropria della sua vicenda familiare, questa vicenda esce dalla sfera privata, esce dall’oblio e diventa un elemento della elaborazione collettiva. In questo può essere utilizzato come fonte in un laboratorio di storia, magari a scuola, sia scuola media che scuola superiore. Intendiamoci, la storia di Rina Gatti, contadina umbra, non è la storia dei contadini umbri, ma la storia dei contadini umbri sarebbe più povera senza questi testi di Rina.
La memoria del testimone non può sostituire la storia, ma ci da una serie di elementi per percepire e far percepire la complessità della storia; la memoria, l’autobiografia, non è tutta la realtà, non ci da i fatti, non ci da le cifre, ma ci da una cosa ben più importante: ci da la voce umana che ha attraversato la storia. E questo è un dato importantissimo che solo queste fonti possono dare.
Certo bisogna evitare “ la sacralizzazione e la banalizzazione della memoria” ma le autobiografie, inquadrate in questi orizzonti diventano fonti “privilegiate” per molti filoni di studio, è come se il campo degli studi storici improvvisamente si dilatasse, allora, attraverso questi testi noi possiamo ricostruire la vita quotidiana, il vissuto. Ma questo è un testo fondamentale per una storia che va molto di moda, la “storia di genere”, infatti non c’è in questo porsi all’attenzione della comunità della donna alcun pre-femminismo; un allargamento di orizzonti che è veramente straordinario. Questi materiali hanno la capacità di far scoprire i soggetti che nella storia agiscono ed ecco che siamo tornati alla relazione tra memoria e storia nella forma particolare della memoria autobiografica che, frutto del presente in cui prende voce e parole, ci da una chiave di lettura del passato e della storia.
L’insegnamento della storia non si può certo ridurre alla presentazione di una memoria autobiografica, ma, partendo da una biografia come fonte, per la ricerca storiografica ed anche per la pratica didattica si aprono strade assai proficue; strade capaci di far percepire la complessità della storia, i mille fili che legano le esistenze e le scelte individuali con gli eventi e i processi che investono più profondamente e trasformano il tempo e la società.
Io spero che, attraverso anche l’istituto che io presiedo, questo cammino possa essere intrapreso e che noi possiamo fare dei testi di Rina Gatti dei testi capaci di trasmettere alle giovani generazioni i valori, i sacrifici che quella civiltà esprimeva, senza per questo indulgere in nostalgie su un mondo a cui non è possibile ritornare. Valori di onestà, di solidarietà, del silenzio che non era mutismo ma parlare quando era necessario, riflettere su questi valori credo che faccia bene a tutti e credo che faccia bene soprattutto per il futuro perché sappiamo che, senza memoria, non si costruisce nessun futuro.
Intervento della Prof.ssa Isabella Nardi
Docente di Critica Letteraria presso l’Università degli Studi di Perugia
Alla presentazione del libro “Stanze Vuote, addio” di Rina Gatti Edizioni Thyrus 2003
Rocca Paolina – Umbria libri – Perugia 15 novembre 2003.
Dopo il successo di “Stanze vuote”, Rina Gatti ha ripreso in mano il filo della sua vita per scrivere “Stanze vuote, addio”, dove ricostruisce i lunghi anni della giovinezza e della maturità, l’esperienza dura del matrimonio e l’esperienza felice della maternità. Quando abbiamo letto “Stanze vuote” lo abbiamo visto come una rievocazione nostalgica di un mondo tramontato e ne abbiamo apprezzato oltre alla piacevole scioltezza della scrittura i risvolti antropologici e folklorici. Riletto dopo “Stanze vuote, addio”, esso ci appare piuttosto come il luogo dell’idillio infantile, quando tutto è avventura e novità, anche nel modesto e ripetitivo vivere quotidiano della famiglia contadina; è l’Eden naturale da cui la protagonista viene cacciata in nome di una legge sociale, il matrimonio. L'”addio” presente nel titolo del secondo volume grava come una pietra tombale su tutto il “prima”, mentre le “stanze vuote” si riempiono, in realtà, degli affetti, delle consuetudini, delle illusioni perdute per sempre. La pagina memorialistica da semplice testimonianza diventa ora romanzo autobiografico e si rivolge a un pubblico più maturo, più adulto. “Stanze vuote, addio” è un libro che colpisce profondamente, perché è insieme personale e politico; da un lato, come il precedente “Stanze vuote”, è un’autobiografia, il racconto di formazione di un Io che si pone al centro della vicenda ricordata retrospettivamente dal suo punto di vista, ma dall’altro, ancor più del precedente “Stanze vuote”, è un testo politico, nel senso più pieno e più alto di coscienza storica, di fede concreta nella vita, nella possibilità dell’uomo di rispondere al disegno di Dio.
Sperduta nel mondo duro del dopoguerra, di cui fornisce una severa e lucida descrizione “dall’interno”, Rina cerca una via di salvezza nell’azione, non un’azione romanticamente rivoluzionaria ( e velleitaria, come è il caso del marito), ma una azione concreta, puntuale: ” Mi davo da fare in ogni modo per mettere insieme qualcosa da mangiare e non rifiutavo nessun lavoro”(p.83).
In questo, si trova anche a fare i conti con il difficile passaggio sociale della donna verso l’autonomia, segnata dal lavoro fuori casa, che Rina e il coro dei suoi personaggi minori considerano ancora, in quegli anni del dopoguerra, come uno stigma della povertà e del fallimento:”Non badavo molto alle donne del paese e alle chiacchiere che venivano messe in giro, andavo dritta per la mia strada con lo sguardo insicuro, senza fermarmi a parlare con nessuno”(p.83). La rete della maldicenza si snoda dappertutto, rende soffocante il vivere sociale per la protagonista fin dal giorno del matrimonio:”Non mi rimaneva che fare buon viso alla cattiva sorte…come sempre. Oltretutto le malelingue erano di continuo in agguato e non aspettavano altro che il pretesto per costruire pettegolezzi e maldicenze”(p.35)”Le chiacchiere di paese sono terribili perché possono far diventare montagna un sassolino e circolano in una maniera subdola e cinica su tutte le bocche, anche su quelle che si dicono amiche”(p.84). La maldicenza amplifica e diffonde il senso di mancanza e di fallimento che Rina avverte nel suo progetto di vita e su cui fonda le sue memorie. In fondo tutto il libro racconta proprio la storia di un fallimento: falliscono le speranze della giovane Rina nella ricomposizione postbellica di una società contadina povera, ma rassicurante nella sua ciclicità( cap.II La guerra e la terra), e fallisce la sua illusione che tutto il mondo sia a misura della sua grande e affettuosa famiglia . Ma soprattutto grava sul racconto il dolore del matrimonio sbagliato: non a caso il sottotitolo recita ” Due anime smarrite nell’Umbria contadina del dopoguerra”, perché lo smarrimento è di Rina, ma anche del marito, che reagisce ora con la collera e con la violenza ora con la rancorosa inoperosità nei confronti delle ingiustizie, vere o presunte, dell’ assetto economico e sociale che si configura a partire dal dopoguerra.”Noi due, figli di famiglie contadine che per generazioni avevano sudato e sofferto lavorando poderi altrui tra l’Umbria e la Toscana, stavamo saltando il fosso senza rendercene conto.”(p.128).
Solo alla fine, confrontando il proprio destino con quello, pesante anch’esso, di Gino, il primo amore casualmente ritrovato in vecchiaia, Rina trova la pace, nella consapevolezza adulta di aver molto sofferto, ma di aver anche molto ricevuto in “esperienza, comprensione, riconoscenza, sentimento”( p.237) così da poter concludere in guadagno e non in perdita il bilancio di una vita.
Del resto, tutto il libro pulsa, diremmo, in sistole e diastole : la coscienza di stare nella “ferita” dell’esistenza, con il suo travaglio ma anche con le sue tregue rasserenanti, colora le pagine, le sostiene e le valorizza. Il problema, semmai, è la capacità di restituirne a pieno, con il linguaggio, la concretezza di iter personale. A differenza di quello che succede per altri libri di memorie “cittadine” in cui la cultura medio-alta degli autori li porta, paradossalmente, a scegliere un tono affabilmente conversevole, lo stile narrativo di questa “figlia di famiglia contadina” è talora ingenuamente “letterario ” come se l’autrice avesse sentito l’esigenza di vestirsi a festa, per dare dignità alla sua scrittura; in realtà, le parti più deboli del testo sono proprio queste, mentre il libro piace quando ritrova un suo tono piano, asciutto e severo, se vogliamo, volto alla evocazione dei “fatti” sicché si può dire che non c’è moralismo nella scrittura della Gatti, o intimismo psicologico: il dramma è all’esterno, nei fatti, raccontati con chiarezza raggelante.
Questo non vuol dire che davanti a momenti difficili, non si mettano in moto meccanismi individuali di frustrazione, delusione, sconcerto, rabbia: “quante volte l’illusione di aver conquistato un piccolo traguardo si era poi frantumata cozzando contro l’ennesimo errore, l’ennesima imprudenza, l’ennesima trappola del destino o della cattiveria altrui!”. La pagina dà allora testimonianza della sofferta costruzione dell’io, delle sue lotte e della sua capacità di resistere e di dare risposte agli eventi. Ma resta centrale nella riflessione il tema dell’uomo, con le sue componenti di grandezza, ma anche con la sua matta bestialità. In questa visione fondamentalmente pessimista e bloccata, tutto è già scritto: “Adesso penso che tutto doveva essere già scritto nel destino e per quanto io cocciutamente pensassi che fosse possibile modificarlo, dovetti imparare che destino e carattere non si cambiano mai.”(p.55).Il destino non si cambia, ma si impara ad accettarlo. Il male è accolto da Rina come un momento del processo di perfettibilità, il male si supera solo con la fraternità, la condivisione e la fede (vedi episodio della zia Santina, poverissima eppure “generosa come pochi”, capace di dividere il pochissimo ricevuto, con qualcuno ancora più povero di lei p.204 e segg.). La sua disperazione, dunque, si lega ai momenti di isolamento e solitudine(“non avevo nessuno con cui confidarmi”p.10;”non sapevo nemmeno con chi confidarmi, a chi chiedere aiuto”p.83;”ma quello che continuava più a pesarmi era che mi sentivo sempre sola ad affrontare le nostre difficoltà.”p.161), mentre è il calore dell’affetto a illuminare e rendere sopportabili fatiche e disagi, sia che si tratti del piccolo Bruno, che cerca di alleviare come può la vita della mamma, sia della vecchia madre di don Luigi, da cui Rina va a lavorare facendosi a piedi tutti i giorni Ponte San Giovanni- Perugia centro, che la considera finalmente una persona vera e viva: indimenticabile la scena del caffè, caffè vero e non orzo e cicoria, bevuto insieme al tavolo della cucina(p.p.200-201).
Perché scrive Rina Gatti? Anzitutto per conoscersi o meglio ri-conoscersi , e pacificarsi: “Ripercorrere la mia vita è stato come nascere un’altra volta, […] mi ha fatto sorridere per la mia ingenuità, e mi ha fatto piangere per la mia ignoranza del mondo e delle cose: Mi ha fatto fare però anche una scoperta stupenda […]: quella di essermi liberata dei miei rimpianti” “Quella era la mia vita e forse non sarei quella che sono se non avessi passato ciò che ho passato”(p.230). Ma l’atto di “scriversi” è compiuto non solo per sé e per gli altri : il perché diventa anche “per chi”.
La scrittura autobiografica è un atto di identità, che dà forma e significato alla propria vita (“Dovevo in qualche modo mettere ordine in quella confusione di sensazioni, in quell’affollarsi di ricordi, in quella vita che avevo vissuto e non sapevo come giudicare”p.230), ma è anche un dono di sé, un gesto di apertura verso i lettori, specialmente quelli di generazioni diverse. L’intento che guida l’Autrice è proprio quello di ricostruire il proprio viaggio nel tempo come manifestazione di un “destino”. Nel porre in sequenza, contestualizzare e soprattutto interpretare i nodi della propria esistenza, Rina Gatti scopre, per sé e per noi, che comprensione e compassione si collegano: ” non aveva senso che nella nostra situazione finissimo sempre per accusarci e aggredirci l’un l’altro;- dice di sé e del marito- avremmo dovuto affrontare insieme il destino che ci mandava contro sempre nuovi ostacoli e trabocchetti”p.144 e a proposito del suo servizio di assistenza agli anziani “ciascuno di essi aveva bisogno non solo delle cure materiali, per le quali io ero pagata, ma anche di amore, di […] partecipazione. Io parlavo con loro, mi facevo raccontare tutto quello che desideravano dire, li accarezzavo quando avevano bisogno di sentire vicino una vita[…][…] stringevo le loro mani quando la forza del dolore superava quella dei farmaci”(p.236). E non viene mai meno in lei, anche quando scrive, quella dimensione di responsabilità verso l’altro, di “cura dell’altro” che la caratterizzano ( “L’abitudine a lavorare e a occuparsi degli altri- nota quasi alla fine del racconto- crea una dipendenza, come una droga” p.230), sicché il tentativo di chiarirsi le ragioni dei propri successi o fallimenti esistenziali, si propone anche, di per sé,come interessante strumento di insegnamento intergenerazionale: “Nessuna vita sarà sprecata, nessuna morte resterà senza significato finché la memoria e il ricordo potranno dar loro voce; perché nessun silenzio è così assordante come il muto scomparire di un’epoca”scrive la Gatti a bilancio della sua fatica dello scrivere e conclude con una promessa “Sento ancora, tra queste finestre sconnesse, tra queste mura ammuffite, le voci che animavano queste stanze vuote, e forse tornerò ancora, per capire ancora, per scoprire ancora, per ricevere e donare ancora”(p.244).
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Ufficio Scolastico Regionale per l’Umbria
Direzione Generale
Perugia, 7 novembre 2003
“Dalla lettura d’alcuni brani di “Stanze Vuote” e di “Stanze Vuote, addio” mi sono resa conto della dimensione dei sentimenti positivi d’amore per la vita e per gli uomini che la spingono a scrivere.
Non mi sorprende il successo che Lei riscuote presso i giovani e l’interesse che le poesie ed i racconti suscitano in tutti coloro che si avvicinano alle Sue opere.
La serena compostezza dei sentimenti nella memoria della condizione dolorosa che Lei, coem altri, ha vissuto La onora.
La memoria del proprio e dell’altrui passato si trasforma in forza quando si sostanzia nella fede che gli uomini possono e debbano agire spinti dal desiderio di giustizia.”
IL DIRETTORE GENERALE
Anna Maria Dominici
“ Sono colpito dalla eleganza e dalla sensibilità di queste pagine autobiografiche e mi chiedo come questo talento non si sia espresso prima d’ora in altre opere…”
Milano 30 ottobre 2002
SERGIO ROMANO
“Mi hanno sempre affascinato i libri che percorrono la memoria, soprattutto quelli di chi ha vissuto direttamente quelle vicende che proprio partendo dal nostro passato, raccontando come eravamo, ci restituiscono volti, modi, fatti le cui tracce ritrovo, spesso, nella mia vita attuale.
…la forza di questo racconto ricorda con amore e grande dignità un tempo che è davvero la nostra storia ed è, come dicevo, la memoria di quello che in fondo noi siamo, un’identità oggi troppo facilmente dimenticata nell’illusione di essere lontani dall’umiltà e dalla durezza delle nostre radici.
Le testimonianze della memoria sono il nostro sangue, sono i giorni che scorrono sotto la nostra pelle e che ripropongono, a chi in questo tempo distratto se ne scorda troppo facilmente, la direzione dalla quale veniamo, i valori che ci hanno sostenuto, i modi e i fatti quotidiani che hanno costruito il nostro presente…”
Roma maggio/agosto 2003
WALTER VELTRONI
“Desidero congratularmi con Lei per il Suo innato talento e per aver saputo realizzare le Sue ambizioni letterarie. Le Sue opere sono una preziosa testimonianza di un’epoca passata che Lei ha saputo far rivivere con eccezionale valore.”
New York 30 settembre 2003
GIANNI RIOTTA
“Lei è una scrittrice autentica dotata di un talento indubbio che lascia stupiti autodefinendosi Lei autodidatta ed ottantenne.”
Roma 16 dicembre 2003
PUPI AVATI
“Stanze Vuote di Rina Gatti una delle opere prescelte, insieme a scrittore Italiani come Levi, Vittorini, Camilleri e stranieri tra i quali Borger, Joyce, Conrad, Hesse, Dumas, Kafka, Dickens, Mequez, Amado.
Inserita in un volume pubblicato ad Aprile 2008 nella collana Management Files a cura della Etas Rizzoli Libri dal titolo: “Il grande libro della letteratura per manager”, autori F. Bogliari – F. Cutrano – L. Di Marco – M. Lombardi – E. Riboni – P. Trupia.
Il volume raccoglie la selezione di 50 opere con le biografie dei 50 autori, con l’intento di proporre una chiave di lettura che offra delle suggestive metafore che possono rivelarsi utili e anche illuminanti in un mondo complesso e condizionato dalle relazioni interpersonali come quello dell’impresa.”
INTERVISTA A RINA GATTI
Da parte degli studenti delle classi III A e III B - Scuola Media di Torgiano
D. Quando e perché le è venuto in mente di scrivere un libro sulla sua vita?
R. All’inizio io non pensavo affatto di scrivere un libro; sentivo dentro di me il bisogno di scrivere e, dopo la pensione, cominciai a mettere su qualunque foglio o agenda mi capitasse le impressioni che avevo sul mondo e sulla natura. Poi cominciai a frequentare delle riunioni di un’associazione di donne anziane come me e lì ci furono occasioni di scrivere e leggere insieme poesie e riflessioni. I commenti positivi su quello che scrivevo e l’incoraggiamento ad andare avanti mi hanno sostenuto nella difficile prova di ricominciare una cosa che avevo abbandonato ormai da cinquant’anni, visto che le ultime cose scritte da me erano le lettere ai miei cugini prigionieri di guerra.
Un’estate poi fui invitata al mare a Santa Severa, dove c’era mia sorella; io non ero mai stata in vacanza al mare, e per me fu uno schok. Ero così inibita che mi vergognavo a mettere il costume, e mi trovavo un po’ a disagio in mezzo a tutta quella gente che riempiva la spiaggia, giovani e vecchi insieme, tutti mezzi nudi, abbracciati, confusi, così liberi e disinvolti che mi facevano sentire come di un altro mondo. Mi chiesi se davvero io venissi da un altro mondo, o, perlomeno, mi veniva da chiedermi dove avevo vissuto fino ad allora se il mondo era potuto cambiare così tanto senza che io mene rendessi conto. Così preferivo alzarmi all’alba e godermi la spiaggia ed il sorgere del sole quando non c’era nessuno, e potere così riflettere su tutte queste cose che mi avevano colpito.
Proprio lì andai un mattino da un tabaccaio a comperare un quaderno ed una penna, con la seria intenzione di ripercorrere la mia vita a ritroso per cercare di capire come mi ero potuta trovare in quella condizione e per cercare di dare un senso a tutto quello che confusamente mi si affollava in testa, tra memoria, nostalgia e paure.
E’ stato così naturale ricominciare dall’inizio, e poi tutto e venuto fuori da sé, come se i ricordi fossero sempre stati lì, pronti in attesa di essere rievocati. Così è nata la raccolta di quaderni, tutti scritti a penna, che poi hanno dato origine a questo e agli altri libri.
D. E’ stato difficile ricordare la sua infanzia e la sua adolescenza? Ma è veramente tutto così vivo nella sua mente?
R. Non è stato affatto difficile, come dicevo tutto mi è tornato in mente con una facilità che ha sorpreso anche me. Io sono tornata bambina, mi rivedevo lì, nella campagna accanto al Tevere, come ero allora, mi sentivo nei panni di allora, mi sembrava di sentire ai piedi gli zoccoli di allora. Tutto era così vivo, così presente, come se rivedessi la mia vita in un film; ancora meglio però perché io potevo risentire anche gli odori, i rumori, i silenzi della nostra campagna, il senso di appartenenza alla mia famiglia, la sensazione della condivisione di un comune destino, tutti insieme nel nostro podere, uomini e animali.
D. Cosa ha provato nel rivivere tutte le esperienze che racconta?
R. Una sensazione molto positiva, una grande emozione, cose che mi hanno dato la forza per andare avanti nello scrivere e nel ricordare
D. Dal suo libro emerge che i genitori non parlavano molto con i figli, soprattutto le mamme con le figlie. Anche lei si è comportata così con i suoi figli?
R. No, assolutamente. Allora c’era una forma di vivere insieme nelle famiglie che era condizionata da regole non scritte, ma durissime, regole legate alla morale e alla religiosità che si applicavano a tutti gli aspetti della nostra vita, ed entravano anche nei rapporti più intimi. Davanti a certi argomenti scattava un senso di vergogna che era più forte di qualunque altra cosa, più forte persino dell’affetto tra madre e figlia. E sì che di affetto ce n’era, a modo loro, con i pochi mezzi a disposizione, i rapporti erano molto affettuosi, c’era un amore vero e profondo tra le coppie e verso i figli che sopravvivevano, ma davanti ad argomenti come i rapporti tra uomini e donne, o su questioni intime c’era imbarazzo e chiusura a volte totale.
Con i miei figli io invece ho sempre cercato di comportarmi come un’amica, con loro ho sempre cercato il dialogo, mettendo l’amore davanti a tutto.
D. Trova migliore la società di ieri o quella di oggi?
R. Non si può rispondere in un modo deciso, perché nel mondo di oggi ci sono stati dei progressi e dei vantaggi per tutti che erano impensabili ai miei tempi. Anche per gli anziani ad esempio la vita è migliorata tantissimo, una volta si era vecchi già dopo i 50 anni, si arrivava a quell’età già quasi senza denti, stanchi e malandati. Adesso invece sembra che la vita possa cominciare dopo i 50 anni, con la pensione, i viaggi, il tempo libero, l’Università della Terza Età. Quindi tante cose sono migliorate, ora quasi non muoiono più bambini nei primi anni di vita, io invece ho avuto due fratelli morti prima di me e uno dopo. Certo questo benessere e questo progresso ha un prezzo che io vedo pagato ogni volta che guardo al telegiornale quante giovani vite si schiantano con le auto, o quanti si fanno trascinare e distruggere dalle terribili droghe. Insomma c’è tanta violenza, tanta ambizione, tanta ingordigia di denaro e di potere in questo mondo che le cose buone passano quasi in secondo piano e mi viene da rimpiangere il mondo in cui sono nata dove i rapporti erano forse più semplici e a volte più rudi, ma fondati su sentimenti veri e non inquinati da tutte queste depravazioni.
D. Cosa ha provato quando ha dovuto lasciare la sua casa?
R. E’ stato come strapparmi via un pezzo di cuore, lì c’era tutto il mio mondo, le mie sicurezze e quanto erano importanti per me l’ho realizzato proprio quando ho dovuto abbandonarla. Se leggete il secondo libro “Stanze Vuote, addio” potrete rivivere tutto quello che ho provato, io come tutta la mia generazione, tutti quelli che in quegli anni, per un motivo o un altro, dovettero abbandonare le campagne.
D. E’ stato difficile per lei, dopo tanti anni, mettersi a scrivere questo libro?
R. All’inizio sì perché ho dovuto imparare di nuovo a scrivere in un modo che avevo abbandonato dai tempi della scuola ed avevo ripreso solo ai tempi della Guerra Mondiale. Ma volevo che i miei figli e i nipoti, se mai fossero venuti, potessero conoscere il nostro mondo, quel mondo che ha dato origine a tutto quello che abbiamo ora. Un mondo bello dal punto di vista della natura, ma durissimo per noi che dovevamo viverci in condizioni a volte peggiori di quelle che vediamo ora nel Terzo Mondo. Un mondo però anche pieno di esperienza, che rispettava i ritmi della natura, che era fondato sulla solidarietà tra familiari e tra vicini, un mondo che era rimasto quasi immutato per secoli fino ad allora. E in quella lotta per la sopravvivenza noi non ci siamo mai arresi, sempre con fede, con speranza, con amore abbiamo lavorato oltre ogni immaginazione perché i nostri figli potessero avere un futuro migliore. E ci siamo riusciti, ma per era duro e ingiusto vedere che gran parte dei giovani invece ignorano e non si curano di conoscere il nostro recente passato, così ho pensato che fosse utile scrivere questi libri e lasciare una memoria così per le generazioni future, come un seme che prima o poi, nelle anime e nei cuori più sensibili, germoglierà.
D. Quanto tempo ha impiegato per scriverlo?
R. Da quando ho iniziato a scrivere per ripercorrere la mia infanzia a quando è stato pubblicato il secondo libro, sono passati dieci anni
D. Le manca molto la vita di campagna e la famiglia patriarcale?
R. Mi manca molto il contatto con la natura, specialmente quello che ho scoperto andando in pensione, conoscendo il mare, le montagne, i parchi, vivendo la natura solo nel suo lato bello e non come la madre-matrigna di quando lavoravamo senza posa la terra in ogni stagione, come ho scritto anche nella mia poesia Ombre Silenziose.
Ho sempre amato la natura e le bellezze del creato ma in questi ultimi anni sento di apprezzarle come non mai, e per questo facevo, quando la salute me lo permetteva, delle lunghe passeggiate nel parco vicino casa mia, la mattina all’alba, quando non c’è nessuno tranne gli uccellini più mattinieri.
La vecchia famiglia contadina era certo bella, viva, protettiva ma tutt’altro che rose e fiori. Per noi donne specialmente significava essere sempre le ultime, obbedire, lavorare e fare figli; significava accollarsi tutto il peso della casa oltre che partecipare ai normali lavori nei campi, accudire bimbi ed anziani, mariti e zitelli; nella famiglia i maschi non sposati avevano comunque diritto all’attenzione delle cognate oltre che delle proprie mamme.
Allora non si conosceva altro tipo di famiglia e quindi era normale vivere così numerosi insieme condividendo praticamente tutto, perché era difficile avere un segreto o qualcosa di riservato; ma non ci sentivamo male per questo e purtroppo, la mia esperienza successiva, quando formai una mia famiglia abbandonando il nostro podere mi fece rimpiangere molte volte il calore e la sicurezza che provavo da bambina. Se leggerete il secondo libro conoscerete come andarono le cose dopo la guerra quando tutte quelle famiglie numerose si sciolsero e il mondo cambiò.
D. Può raccontarci la sua esperienza durante la II Guerra Mondiale?
R. La II Guerra Mondiale fu dura per noi come per quelli che erano al fronte. Dovemmo dall’inizio lavorare il doppio, perché, anche senza uomini, il podere e gli animali avevano le stesse esigenze, il padrone aveva le stesse pretese per cui donne, bambini e anziani dovettero sobbarcarsi il lavoro che prima era fatto dagli uomini di casa. Poi cominciarono i problemi legati all’occupazione tedesca ed al passaggio del fronte, tra i saccheggi delle truppe regolari e gli assalti e le ruberie degli sbandati, il continuo timore per le violenze dei fascisti e dei nazisti verso i civili e naturalmente verso le donne.
Se leggerete il mio secondo libro ci troverete degli episodi molto interessanti e belli sul vostro territorio, sul fiume durante la Guerra, sulla distruzione della torre prima e del ponte di Pontenuovo poi.
D. E’ solita raccontare ai suoi figli e ai suoi nipoti la sua infanzia?
R. Quando erano piccoli raccontavo spesso ai miei figli della mia famiglia ed nostro podere, e adesso anche racconto della mia infanzia al mio piccolo nipote. E proprio raccontando mi è venuto il desiderio di scrivere anche questi ricordi, perché in questo mondo non tutti i giovani hanno la fortuna di avere nonni che parlino con loro e che gli raccontino com’era il mondo prima che loro nascessero. Così ho pensato che fosse importante raccontare il nostro mondo perché voi giovani possiate capire le differenze e perché, confrontandolo con il vostro mondo, possiate apprezzare tutti vantaggi, le comodità, la grande fortuna di essere nati adesso, ma valutando anche che tutto questo non è stato un regalo del cielo ma il frutto dal lavoro e dei sacrifici di coloro che ci hanno preceduto, della loro umiltà, della loro costanza nel voler costruire per i loro figli e nipoti una vita meno dura. Quindi non date per scontato quello che avete, ma apprezzatelo e conservatelo.
D. Se potesse andare indietro nel tempo, che cosa cambierebbe della sua vita?
R. Cambierei tante cose, darei ascolto di più ai miei sentimenti e non accetterei più di mettere la mia vita nelle mani degli altri. Ma non è possibile tornare indietro e perciò sono anche orgogliosa di quello che ho fatto e di averlo fatto da sola.
D. Le è più capitato di vivere esperienze come quella della “scena degli amanti”. Come ha reagito?
R. Quel senso di pudore e di vergogna che ci inculcavano da piccoli non mi è ancora andato via. Io sono stata sempre tollerante verso gli altri ma non riesco a trovare naturale vedere gli altri fare alla luce del sole, sulla spiaggia o per strada cose che noi non avremo nemmeno osato immaginare. Comunque non li condanno, se sono felici è giusto che i giovani esprimano il loro affetto anche in pubblico. Magari quelli di una certa età che li vogliono imitare mi sembrano un po’ ridicoli. Gli amanti poi, quando sono storie strane o indecenti, anche adesso fanno ribrezzo, come si vede spesso nei giornali.
D. Rimpiange ancora di non essere andata, quell’estate, alla Festa di San Lorenzo?
R. Quella festa mancata è stata la mia più cocente delusione, tanto cocente che, se ci penso, ancora adesso provo rabbia nel ricordare quel brutto scherzo del destino. Per anni mi è rimasta nel cuore la spina di quell’occasione perduta, a quell’età è facile fare un tragedia per una cosa come quella, specialmente per noi che di occasioni ne avevamo così poche. L’entusiasmo, l’emozione, la gioia che avevo dentro nello scendere le scale con il mio primo vestito nuovo, tutto fu amaramente distrutto in un momento solo. Se ci fossi andata, chissà, la mia vita avrebbe potuto andare diversamente.
D. Ha più rivisto Gino?
R. La risposta è sì, ma tutto è avvenuto in un modo così sorprendente che non voglio togliervi il piacere di scoprirlo quando leggerete il secondo libro.
D. Può dirci che cosa significava per la sua famiglia vivere vicino al fiume Tevere? Ha qualche esperienza da raccontarci in proposito?
R. La presenza del fiume era di grande importanza allora, pur con la sua doppia faccia dato che averlo vicino era spesso una benedizione visti i lavori e i servizi che facevamo usando la sua acqua, ma poteva diventare una vera maledizione quando la brutta stagione lo faceva uscire dal suo letto ed arrivare così ad invadere i nostri campi. Quante volte dovemmo ripetere la semina del grano più e più volte perché il Tevere era straripato e si era portato via tutto il nostro seminato. Per non parlare di un’estate in cui la piena traboccò proprio durante la mietitura, e assistemmo impotenti alle acque fangose che sollevavano i covoni del nostro grano appena mietuto per portarlo via lungo la corrente. Che corsa facemmo fino ai piloni del vecchio ponte di Pontenuovo nella speranza di intercettare lì qualcuno dei fasci di grano prima che si perdessero definitivamente. Per fortuna la nostra casa non era direttamente minacciata, ma c’erano altre case di contadini costruite proprio accanto all’argine che avevano il destino segnato; ad ogni piena rischiavano di trovarsi l’aia sommersa e quindi di perdere tutte le bestie, trovandosi in poco tempo l’acqua a metà delle scale. Certo il fiume era anche il raro piacere di qualche bagno, specialmente per i maschi, noi per entrarci dovevamo aspettare qualche lavoro, come sciacquare la biancheria o andare a macerare la canapa. E vi assicuro che entrare dentro l’acqua con le nostre lunghe gonne ed i mutandoni fino al ginocchio che si appiccicavano alle gambe, non era proprio un piacere, ma le occasioni per lavorare e scherzare con i maschi erano poche, per cui tra schizzi e dispetti passavamo qualche ora divertente. Nel mio secondo e nel terzo libro racconto molti episodi legati al fiume e a quello che rappresentava nel nostro piccolo mondo, racconto anche tutti i particolari di come si curava la canapa grazie al fiume e, nel secondo libro, c’è un capitolo che si intitola “La Passerella” che narra un giorno particolare in cui mi trovai a combattere tra la furia dell’acqua vorticosa del fiume e la furia dell’acqua del temporale che non cessava di cadere dal cielo. Dite alle vostre professoresse che ve lo leggano e vi renderete conto di che cosa poteva diventare, allora, una cosa apparentemente semplice come passare da un lato all’altro di un fiume.
D. Cosa pensa dei giovani d’oggi?
R. I giovani sono sempre il futuro di ogni generazione, sono il nostro domani, quindi è giusto ed è anche un po’ un dovere dare loro fiducia, certo che adesso il mondo è molto più pieno di tentazioni, di illusioni e di trappole tragiche rispetto a quando eravamo noi i giovani. Vedere tutti questi ragazzi così liberi, così emancipati, indipendenti e spesso disubbidienti mi fa preoccupare e mi mette in ansia per loro e per i loro genitori. Vedere le assurde morti del sabato sera o le tremende cadute nell’inferno della droga mi fa male come se ogni vittima fosse un figlio mio.
Quello che trovo sia sbagliato e vedere nei giovani dare tutto per scontato, il benessere in cui nascono, la salute di cui godono, quello che ricevono dalle loro famiglie fino a che non sono adulti.
Tutto questo non devono faticare per averlo e quindi finiscono tante volte per non apprezzarlo, è facile disprezzare le cose ricevute prima ancora di essere desiderate e in questo c’è la responsabilità dei genitori, perché sono loro che dovrebbero far capire ai loro figli il valore di quello che hanno, cominciando dalle cose semplici, come avere l’acqua corrente in casa, o il riscaldamento o il cibo in tavola semplicemente a richiesta. Tutte cose che non solo i bambini che noi eravamo non hanno mai conosciuto, ma che ancora adesso sono un sogno per tante persone in giro per il mondo. E invece qui da noi possono succedere tragedie per una delusione o per un desiderio non realizzato. Ma io non mi sento di criticare i giovani, loro ci sono nati su questa altalena, ci si sono trovati bene e quindi continuano ad andarci, e non li possono criticare se non vogliono scendere; ma qualcuno deve prendersi la briga di dirgli chi l’ha messa in piedi questa altalena e quanto può durare.